Nome di battaglia Mosca

A mio padre

A tutti i partigiani

 Quella notte del martedì 24 aprile non avevamo dormito, eravamo stanchi,  carichi di aspettative e di paure per la notte che dovevamo affrontare. Gli ordini erano stati recepiti e il sangue bolliva; faceva freddo e nella cantina della cascina di Aramengo che ci nascondeva si sentivano parole, frasi e ricordi degli amici partigiani che non ci sarebbero stati per l’impresa della mattina seguente…”Sentito Pin quel rumore che vien da fora? Eh, o sentito?” diceva Meo il veneto. Pin se ne stava accartocciato nel suo pagliericcio a mugugnare che aveva fame e che magari ci fosse una gallina là fuori che le avrebbe tirato il collo subito. “E ora se no te ve ti a vedere, n’darò mi che no so tranquio…me ricordo sempre del Garlasco, seto, che fine chel ga fatto chea notte, insieme tutti st’altri, dopo che chea bestia dea contessa la ga parlà coi so amissi neri…xe sta così bruto chel  rastreamento che te o lezare’ sol libro de storia… vero Pin?”

Ma Pin continuava a mugugnare e a dire parole e a battere i denti. Chissà che ora era, i rumori del cortile mescolavano fruscii di foglie, razzolare di qualche animale, l’“hu-u-ou” della civetta che faceva rabbrividire, il raspare dei cani che si abbaiavano a vicenda, raccontandosi storie anche loro, le storie ululate della notte e quella notte era davvero una strana notte, pareva che contenesse sguardi, umori, paure, ribellioni, sogni, pareva soffocante e desiderata e non sembrava aver confini.

Si alzò il Diavolo rosso, salì le scale e  andò verso la porta, socchiudendola quel po’ da permettere ad un raggio di bianca luna di penetrare lievemente all’interno e lasciar intravedere fino giù i corpi agitati, gli occhi sbarrati alla ricerca di qualcosa. Si spinse fuori piano per ruotar veloce la testa e annusare l’aria e poi rientrò, forse rassicurato un poco e si sdraiò di nuovo e provò a chiudere gli occhi…

L’aria pareva solida, non entrava dentro ai polmoni, come si poteva dormire con tutti quei sentimenti. “Ehi Mosca, hai un pacchetto di Popolari, eh?”

Me ne stavo rattrappito a rimuginare tra me e me, tanto che non pensavo nemmeno a fumare: chissà cosa starà dicendo Radio Londra e se gli alleati stanno avanzando nel bel mezzo della notte, e poi dalle parole di Saetta dell’altro giorno non abbiamo più avuto notizie. E’ venuto il 19 a dirci di Torino, dell’agitazione del giorno precedente, che gli operai erano scesi nelle strade con gli studenti, tutti gli stabilimenti erano fermi, tutto serrato, tutto sospeso, solo la gente si muoveva e urlava “sciopero generale, sciopero generale!” perché era iniziata la battaglia della liberazione.

Saetta raccontava che i Comandi Zona assicuravano la viabilità alle forze alleate che arrivavano da Genova e da Piacenza. Si vedevano fuggire capi fascisti e persone sospette venivano fermate. Raccontava con spasimo, con quella vena del collo che si gonfiava di ardore giovanile.

Saetta mi è piaciuto dalla prima volta che è arrivato a Primeglio, quando stavamo nascosti vicino alla Madonnina perché Matteo e Gisella, mia sorella, staffetta anche lei, ci davano un pollo e la polenta e anche un bicchiere di Barbera: era una festa quando si sentiva il profumo del vino. E poi magari sbucava anche Luigi, rientrato a casa malato dopo il ’43 e mi dava una pacca sulla spalla con la sua voglia di ridere e di fare scherzi. “Guarda chi c’è, Giuseppe eh?” Si stava un po’ in allegria, ma sempre col fiato sospeso, perché quello era posto di tedeschi. E arrivava anche Rina, la più piccola che voleva prendere la bicicletta di Saetta e gli saltava in braccio, cercando una carezza.

Saetta era di casa; se lo ricordavano tutti quando era arrivato con la sua bicicletta sovversiva, il bavero della giacchetta tirato su e il cappello di lana grigia sugli occhi che il prete gli diceva “Ma tirati su quel cappello Saetta che non ci vedi e vai contro un albero!” Giungeva di fretta, con la vena del collo gonfia dalla corsa sulle colline e ci consegnava le disposizioni, senza tante parole: un ragazzo di quindici anni forse, con lo sguardo all’orizzonte. Mangiavamo insieme, poi fumava la sua Milit, due parole e se ne ripartiva con quella vena che pulsava.

“Sì, tieni Diavolo, la Popolare, vengo fuori anche io a fumare che intanto qui non si respira”. Gli diedi la sigaretta e strofinai lo zolfino sul muro della stalla. Diavolo tirava su delle boccate che neppure il demonio in persona sarebbe riuscito; si sentivano i suoi bronchi ansimare come il fondo più remoto di una caverna.

“Penso alla Gina”, disse “chissà se ancora mi aspetta, ho sentito dire che anche lei collabora su da Cocconato. Cosa dici Mosca eh? Saranno arrivati gli alleati giù a Torino, avranno sparato, avranno catturato dei tedeschi? Dobbiamo scendere dai boschi fino a Bosco Rotondo, andar giù piano nell’oscurità che i tedeschi son pronti da qualche parte a farci un’imboscata. Mosca dai, cominciamo a scendere che qui non si combina niente di buono ad aspettare… ad aspettare che cosa? Che arrivino a stanarci come delle iene bastarde e affamate?”

Diavolo era così, impetuoso e di fuoco prima di una battaglia, ma dovevo stare calmo e il ricordo del tradimento della contessa e del rastrellamento successivo che ne aveva portati via troppi di compagni, mi aiutava a restare ancora fermo. Guardavo il cielo solitario lassù che con le sue stelle pareva continuare dal nero della sagoma della collina e strizzavo gli occhi per distinguere la forma della chiesa. Ripassavo le direttive del CLN date la sera stessa a tutti i Comandi di Zona e trasmesso a noi. Dovevo scendere coi ragazzi della “Montano” anche prima dell’arrivo degli alleati, perché era stato detto che Torino doveva liberarsi da sola e che giù avremmo trovato formazioni cittadine a far da cintura protettiva alla città. L’aria passò veloce quasi a scuotermi dal mio silenzio e sentivo le boccate del Diavolo… “ Tra un po’ si va, Diavolo, preparati. -Aldo dice 26 x 1 !-”

“Dai ragazzi prendete queste due tome che ho nello zaino e aprite quella bottiglia di Matè che ci scalda prima di metterci in armi, bestie di combattenti col sangue che ribolle”

Ci dividemmo le tome col pane secco e bevemmo il vino in silenzio, scambiandoci sguardi. Era venuta l’ora, il buio era al punto giusto e la luna lasciava spiragli  che aiutavano a confondere le ombre degli alberi con le nostre. Caricavamo i fucili e le munizioni negli zaini, la mitragliatrice e  regolavamo i cinturoni dei pantaloni con le pistole e i coltelli, sistemavamo i lacci degli scarponi e ci stringevamo le giacche. Era venuta l’ora di scendere. Dissi andiamo ragazzi che Torino ci aspetta e non dobbiamo crepare nel vento delle colline.

I fruscii delle foglie sussurravano nomi e per terra schioccavano i legni, si mescolavano odori di bosco e di guerra, si scendeva, si scendeva: il tempo sospeso ci schiacciava e spingeva. L’aria era trasparente e si vedevano i nostri respiri, le parole sussurrate ci legavano e gli occhi cercavano intorno.

Superata la prima tratta di collina  ci tuffiamo per terra e strisciamo sull’erba perché sparano coi malefici sputafuochi: i tedeschi, i tedeschi! “Stai zitto e vai, continua Diavolo che non ci vedono” E tutti con la gola chiusa strisciamo ancora, e ci mettiamo in ginocchio per aggrapparci agli alberi e tirarci su. Il patema ci rincorre, vorrei urlare per far uscir la tensione che mi chiude lo stomaco e mi soffoca, non controllo il respiro e il cuore mi pulsa nelle orecchie. Ci siamo, ce la facciamo ragazzi, sentite i colpi che sembrano la festa della liberazione. Nella mente si confondono immagini, mentre rovisto per terra per capire cosa fare: mi appare l’immagine di Pietro tornato dall’Algeria a Cocconato, nero di pidocchi che non era bastata una bomboletta di flit ad ammazzarli,; è lì come a indicarmi di andare che c’è il muretto a riparare… Si va ragazzi, si va… ci muoviamo tra le bombe dei tedeschi come caprioli sulle rocche del Rocciamelone. La voce di Pin urla insieme allo scoppio di una granata che lascia a terra cinque compagni e sferza la corteccia di un albero. Sudore e rabbia si mescolano al sangue dei feriti e alla terra. “State qui che tempo due ore e qualcuno sale a prendervi. Lupo, Baffo, Piccard restate con loro. Legate la ferita di Pompeo che perde troppo sangue.” Continuiamo a scendere e a Bosco Rotondo saliamo su tre camionette e facciamo il  tratto fino a Chieri e poi saliamo verso Pecetto; le bombe non ci riguardano più. Vediamo in lontananza, lungo un sentiero nascosto nell’ombra, una brigata nera; una voce intima di fermarci e partono colpi di fucile, ma noi andiamo veloci, spariamo qualche colpo e li seminiamo.

Le prime luci dell’alba rischiarano la notte fredda e i nostri volti tesi. Ci siamo, ragazzi, ci siamo… Da Pecetto scendiamo a piedi e ci uniamo a formazioni di cittadini, respiriamo l’aria della insurrezione di Torino, spariamo al nemico che si ritira e che distrugge, a squadre che si muovono per compiere sabotaggi… e  corriamo giù dalla collina di Moncalieri per entrare in città dal ponte Isabella e chiudere a tenaglia, e raggiungere Piazza Vittorio…-Aldo dice 26 x 1 !-

Sono stordito dalle granate e dagli spari e corro col fucile spianato, sento il vento e il sole tiepido, sparo al nemico che compare e ammazza più borghesi che partigiani, sparo al nemico che ha ucciso, ha torturato, ha fatto razzie, ha bruciato cascine; sparo e non mi fermo perché l’ora della libertà è questa. Entriamo sul ponte, ci siamo ragazzi…ci siamo. Sento i respiri, gli affanni, gli spari, le granate che sibilano, vedo la luce dell’aria carica e densa, sento la pioggia della mitragliatrice e corro, corro e sparo.

Un calore bruciante mi sale al cervello, la gamba non risponde, la gamba trema, la gamba si apre e lascia scorrere un liquido caldo e cado per terra tra il sangue… guardo il cielo e poi, più niente.

Quella domenica mattina di fine aprile del 1964 c’è il sole e sono seduto davanti alla Consolata a prendere il Bicerin. Mia figlia ha quattro anni e corre sulla piazza ridendo con mia moglie. Gusto quella bevanda che pare la liberazione dei sapori curati da abili mani. “Tu sei Mosca!” Mi giro di colpo e sento come un vortice di tempo che mi prende. Lo guardo negli occhi, lo guardo e vedo quella vena sul collo… “Saetta…Tu sei Saetta”.

Gli occhi umidi di commozione sfumano il suo volto.

Mi alzo e ci abbracciamo in silenzio, a lungo.

 

Elisabetta Boschiggia

Ringrazio per la preziosa collaborazione i miei cugini Marina Conrotto e

Flavio Boschiggia

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